HomeLettureTerre emerse, il mare di Guzzo

Terre emerse, il mare di Guzzo

Chi sceglie libri d’intrattenimento o strombazzati cazzeggi narrativi è meglio che esca subito da questo pezzo. Non è una scortesia la mia, ma un avvertimento ragionevole rivolto a chi è abituato a frequentare opere di superficie. Terre emerse di Leonardo Guzzo (Pequod Edizioni, 2019, pagine 124, 16 euro) appartiene a quello scaffale di traversate letterarie sconsigliato ai «sobri e sterili di fantasia», consultabile preferibilmente da chi è avido di buona letteratura e scrittura capace di proporre salutari resistenze. Tredici storie, tredici pietre di romanzi accennati, tredici narrazioni proiettate alla rimodulazione di miti, alla febbrile ricerca di approdi metaletterari, al desiderio di ritrovarsi faccia a faccia con eroi e antieroi bazzicanti nell’oblio, meritevoli di un cameo d’eternità. Il mare è il terreno dell’incontro e l’isola dei misteri, un mare risolutore e punitore, sterminatore e bardo, felice ossessione dell’autore che, come nel libro d’esordio Le radici del mare, sceglie un immaginario di salsedine per piazzare la sua bussola.

La rotta di Guzzo è più orientata al come si scrive che a cosa si narra: vicende e accadimenti sono pretesti per srotolare una scrittura che supera la trama, quasi come se volesse farla dimenticare, scioglierla nel rarefatto. Andrea Tarabbia, nella nota introduttiva al libro, la definisce “incanto”, evidenziando la maturità di uno scrittore dalla lingua «densa e calorosa» che «crede profondamente nella forza della letteratura». Leggere Guzzo significa perdere i confini del paesaggio e lasciarsi “incantare”, fino alla perdita del chiaro, dall’invisibile che abita il quadro. Non importa come va a finire la storia, conta il gioco delle correnti, ora privo di tumulti, ora travolgente, in cui non c’è senso che non sia catturato, confuso, inebriato in una narrazione che, seppur mantenendo sapori e costrutti classici, sconfina in un preponderante e sperimentale lirismo con l’uso di un armamentario, ben maneggiato, di fresche allitterazioni, similitudini fulminanti, fughe onomatopeiche, registri sincopati, anafore e loop da restarti dentro: «Cercava l’estate, senza l’estate, oltre l’estate che non c’era. Cercava l’odore dei roghi dell’estate, il fumo tagliente sopra la calura, l’odore di stelle, di stelle, che non si può dire. Eppure giurava di averlo sentito. Cercava, di notte, sentori nascituri, i più sfuggenti: l’odore dei fichi, il profumo dell’erba tagliata, il suono d’archi, la musica da camera delle cicale».

«CercavA l’estate, senza l’estate, oltre l’estate che non c’era»

Incanto, appunto. In-canto, nel canto. Il suono che copre e scopre il resto, le mareggiate che riaprono porte dell’anima e portoni di rimorsi, voci e rivelazioni che emergono dal buco degli abissi, le illusioni della natura che rovesciano destini e rilasciano speranze nel rumore sordo di gioie e tormenti: la prosa di Guzzo così “si fa” poetica e rimanda a quella gattiana della raccolta La sposa bambina, ai racconti lunari e agli elzeviri stralunati di Tommaso Landolfi, alle storie apparentemente scoordinate di Alberto Savinio. Scrittori “resistenti” al pubblico, guardiani della letteratura elitaria, volutamente attaccati al primato della lima e alla fornitura di una lingua piena e anticommerciale, visionaria e mai occhieggiante. Terre emerse viaggia verso questa direzione, ambiziosa e ardita, con la sua ciurma outsider, dentro e fuori il mare, di semidei, capitani dai capelli d’oro, donne-delfino, principi delle maree, sciamani persi tra le forme dei sogni, marinai incagliati nel grembo delle onde, poeti emarginati e intellettuali vinti come Amilcare Sciarra, che rifiuta il sigillo della vendetta e la propaganda dei sentimenti scegliendo la via stretta dell’humanitas, e fuggitivi molto cinematografici e carichi d’amore come Michele Improta, con quel desiderio incurabile di sparire, scappare dal paese e scegliere la deliziosa condanna dell’altrove.

 

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