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Quando i poeti ritornano in città

Il Bar dei Giuramenti è quel gazebo in fondo al mare, sospeso su una nuvola, con i tavolini avoriati che sembrano chierichetti festanti dopo il mistero della fede. Ha come tetto un colabrodo rovesciato dagli infiniti fori, progettato da un collezionista di falsi Seurat. Vicino al gazebo, in una stalla d’oro, c’è un unicorno corallino che ogni notte galoppa sulle onde, perdendo dall’autorevole coda tanti cavallucci marini. All’interno del gazebo ci sono un bancone a mezzaluna e un congelatore ad acquario dove sono conservate punte di stelle e cappelli di fate.

Il Bar è frequentato esclusivamente da recuperatori di sogni che in vita loro non hanno mai detto parola, ma fatto versi. Con le tasche vuote, vivono affondando le mani nelle sacche di Don Chisciotte. Laureati nella notte, hanno scritto le tesi su questa nuvola, barattando visioni con i piedi nell’acqua. Quasi tutti a settembre sono depressi e telefonano a mamme e medici. I più gravi, fulminati da attacchi di panico, vagano per casa, scalzi e sudati, e pregano che finisca il tremolio alle gambe, supplicando il cuore di lasciare il trampolino. I più previdenti, per non cedere il passo a terapie e betabloccanti, hanno in petto un cavalluccio lucente chiuso in una boccetta non più grande di una lattina.

Al Bar dei Giuramenti un reggimento di poeti promette riscosse e metafore in nome dell’amore di Keats e delle rughe di Auden, in onore delle foglie di Prevert e delle lune di Laforgue, delle scarpe di Whitman e delle estati di Gatto, dei limoni di Montale e delle albe di Caproni, aspettando che arrivino i barbari di Kavafis, cadano gli Icari di Baudelaire, attracchino i battelli di Rimbaud. Ritornati sulla terra, dopo aver giurato fedeltà perenne alla fantasia, dovranno sbrinare gli occhi di chi non guarda mai al gazebo in fondo al mare. Le uniche storie vere sono quelle campate in aria. I versi giusti provengono dalle nuvole, vibrano tra merli e alberi, strisciano come serpi, frodano i vessilli del potere diventando vento e tepore, schiuma e acqua. Giurano i poeti di non sapere da dove nasca la loro scienza né conoscono fino in fondo i sentieri delle loro solitudini, belle come lampare alla deriva resistenti al pugno degli spruzzi. Giurano i poeti, dopo essersi tuffati, che risaliranno per raccontarci dei sommersi che vivono passioni invisibili ma così forti da aprire e strappare il sipario del mare perché fanno l’amore giù negli abissi. Dove stanno i poeti del gazebo in quest’ora di annuvolamenti all’orizzonte, di tormenti autunnali e di spaesati mattini?

Uno, il più spergiuro, vuole scrivere la storia di un tale che venne al Bar a raccontare che si guadagnava il pane riparando i tetti del suo paese. Un altro sta per iniziare un libro su Flaiano e ha già scelto il frammento dello scrittore marziano da piazzare in apertura: «Ha una tale sfiducia per il futuro che fa i suoi progetti per il passato». Ma secondo voi un poeta vero – quello che segue il volo degli uccelli, s’emoziona per un cielo ferito e cammina nel mondo a occhi aperti, e non quello che ha viole spaiate nel taschino, s’atteggia a Orfeo, ha tende alle finestre e brancola nei salotti di luci gloriose – crede nel futuro? A volte sì, capita. Il suo ieri è un pozzo da cui pesca ricordi quando gli va di stare solo; il suo presente è una coccinella che prende lezioni d’atterraggio; il suo domani è un sorriso a tratti diffidente come un porcospino, abile nell’ascolto e nell’attesa.

«Il gergo dei poeti è questo: un lungo silenzio acceso dopo un lunghissimo bacio» scriveva Alda Merini, poetessa delle nuvole. Quanti baci ieri sera, quanti abbracci prima di lasciare i falò, quanta salsedine nel cuore, quanti sguardi smarriti nella controra, quante presenze brille al raduno dei sogni. E i poeti dal Bar dei Giuramenti, con i piedi a mollo e un cavalluccio sulla testa, annotavano bisbigli, suggerimenti di scogliere, visioni scoperchiate di notte, parole di sabbia e pietre, vite immaginarie, spiragli di dimenticanze.

Giurano anche per voi i poeti, oggi un po’ depressi perché ritornano nelle città, oracoli di paesitudine così carichi di storie e malinconie. Oggi un po’ più soli, con anime tremanti e i segnalibri sparpagliati come coccodrilli sotto la scrivania.

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