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Pantani, l’immortale del Galibier

(Ciclo “Nostalgia canaglia”: 2 agosto 1998). E i miti si fanno vivi all’ora propizia, mentre il cielo si scioglie, gli uomini non fanno gli uomini, i mediocri dettano legge e quel fetente di Fato s’accanisce persino nell’ultima passerella dei Campi Elisi, bucando le ruote al campionissimo. Ma è solo una bislacca mazurca parigina, un liscio romagnolo con suspense. I miti riaffiorano quando – scrisse Ernst Jünger – «l’epoca è scardinata e si trova nel cerchio magico del pericolo estremo». Il pericolo di perdere la faccia, di smontare la dignità, di lasciare per strada il coraggio come se fosse un gregario fottuto.

Stavolta il mito s’è messo in bici sbucando dal regno della pioggia non appena la strada ha preso a salire. Il mito è scattato col sole tra le ruote e quella faccia da galeotto, smaniosa di ali, verso tesori che gli altri non vedono. I tesori sono i sogni dei pirati. Marco Pantani da Cesenatico ha spalancato porte in quel cerchio magico e illusorio dove gli uomini si danno appuntamento per non sognare più; ha consegnato il Tour all’epica e non all’epo, e per farlo ha dovuto puntare all’impresa. Ancora sognanti siamo sul Galibier. Forse perché abbiamo cuori che a volte s’arrendono, si gonfiano come gli occhi di Ullrich e mollano nelle ascese di questa vita più dura del Mortirolo. Ma se si cade sette volte, otto volte bisogna rialzarsi. Questo è Pantani, questo è il suo ciclismo.

La sua storia dovrebbe essere narrata nelle scuole perché il mito è narrazione, è tragedia e trionfo, gioco e massacro, è un ossimoro al quadrato. Le bizze degli dei finirono per porgli sulle strade gatti e gipponi affinché lo distogliessero dalla sua corsa verso le città sognate. Dissero i medici che era un ciclista da rottamare, uno che avrebbe potuto andare a far la spesa su quelle bici con il campanellino e il paniere. Ma furono visti, in quei giorni sventurati, i suoi occhi riempirsi d’artigli. Se ne accorse Luciano Pezzi che lo ingaggiò nella Mercatone Uno formando una squadra di scalatori per quel mingherlino ancora in lotta con il mondo, sveglio e forte, unico, mai domo, con la gamba sinistra merlettata di cicatrici. Il resto è risaputo, le sofferenze risvegliano gli eroi. Parigi non sembrava più lontana.

Sul Galibier, a 50 chilometri dall’arrivo, abbiamo capito che il Pirata rampante voleva spaventare gli dei, sfidarli, ma stavolta niente imboscate. Sotto un diluvio romantico e bastardo una piccola piadina, dai sandali alati come Perseo, toglieva il peso alle montagne. Le montagne, queste Gorgoni solitarie che trasformano uomini in statue, cuori e polpacci in pietra. Il mito parla chiaro: l’unico eroe capace di tagliare la testa alla Gorgone fu Perseo che non rivolse il suo sguardo sul volto del mostro ma solo sulla sua immagine riflessa nello scudo di bronzo. Pietrificati Ullrich e Riis, Pantani-Perseo, leggero come il vento e le nuvole, non le ha guardate mai le montagne. Le ha immaginate davanti a sé, le ha viste, dopo ogni pedalata, morire sotto i suoi piedi: la strada è stata il suo specchio, la sua salvezza, il suo scudo. È andato tra le Gorgoni, contro le congiure del cielo, sentendo solo i battiti del cuore, su per quei monti che, per dirla alla Buzzati, toglierebbero il fiato alle aquile.

è andato tra le gorgoni, contro le congiure del cielo, sentendo solo i battiti del cuore

27 luglio 1998, Pantani doma il Galibier

In un’Italia di banditi e pusillanimi, di falsi poeti e scamiciati, di buonisti e mezzeseghe, c’è un girino che è nato per “scollinare” i pronostici, spiazzare la ragione, smentire il popolo dei catenacciari: pedala e crea nuove corsie, manti di ali, spazi di euforie antiche. Parigi, o cara! Trionfa là dove una ciurmaglia di calciatori guidata da un mister ragioniere, giocava per lo zero a zero. Pantani gioca all’attacco, al diavolo numeri e tabelle: non importa come andrà, ciò che conta è attaccare, soffrire, cadere, rialzarsi, tentare, andare oltre il cielo. Qui non ci sono né panchinari, né calci di rigore, né filosofi del calcio d’angolo, né dichiarazioni studiate a tavolino: c’è un uomo di mare, solo per forza, su strade senza panchine e senza ombre.

Quando parla gli capita di scrivere fiabe: al Giro, prima della cronometro decisiva, disse: «La maglia rosa? Se devo mollarla, solo da morto…». Dopo l’impresa del Galibier, ha detto: «C’era la forza di Ullrich a schiacciare il sogno. Ho rischiato di saltare. Sì, perché quando parti non sai mai dove vai a finire. Provare da lontano, giocarmi tutto: mi ha aiutato il mio coraggio…». Il calcolo non ha mai creato eroi. Pantani non ha calcolatrici. Sa cantare – vuole andare a Sanremo – non sa contare. Un eroe nato per farli i numeri, anche se sulla carta i conti non tornano. Parigi, o cara! Dopo la faccia d’angelo di Gimondi, il volto discolo del Pirata. Ullrich a oltre tre minuti, Riis disperso, Jalabert è rimasto sulle montagne. Ma è tutto sballato, chi ha fatto questi calcoli?

Un certo Marco Pantani da Cesenatico, maglia rosa e maglia gialla, e non finisce qui. È cresciuto nei cortili della fantasia, ha studiato nelle aule delle favole ardenti, dove insegnano che quando osiamo gli angeli ci circondano. Basta scattare dal buio della pioggia, all’ora propizia, senza mai chiedersi il perché di tanta fatica. E pedalare, ansimare e sognare finché la montagna non s’inchina ai tuoi piedi alati, scricchiolando come la tua schiena dopo l’ultima incredibile ascesa.

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