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Napoli sangue vivo

A Napoli c’è tanto di quel sangue che una delle espressioni popolari più gettonate è «iettà ‘o sanghe». La città più che «iettarlo», lo conserva. Non a caso Jean Jacques Bouchard, in un reportage del 1632, la definì «urbs sanguinuum» (la città dei sangui), sbalordito per le tremila reliquie di sacri grumi di santi e beati custodite in conventi e dimore private. Una classificazione del 1951 contava in Italia ben 190 ampolle «sanguigne», la maggior parte in terra napoletana. La storia partenopea si regge su un telaio di prodigi. È un film sacro e profano scritto, diretto e interpretato da un popolo che adora gli effetti speciali.

È possibile, quindi, che tre miti come San Gennaro, Raimondo Di Sangro e Maradona, apparentemente senza legami, abbiano qualcosa in comune. Chi in modo e chi in un altro, scioglieva il sangue. Al pibe de oro bastava una finta; al principe di Sansevero, «stregone» e letterato del Settecento, serviva un cocktail alchemico per riprodurre (e smascherare) nel suo laboratorio a San Domenico Maggiore il «miracolo» di San Gennaro. Del patrono di Napoli, invece, sappiamo che il suo sacro grumo si liquefa, di regola, tre volte l’anno: il 19 settembre (anniversario del martirio), il 16 dicembre (data in cui, nel 1631, il santo si rivelò al popolo e fermò la furia del Vesuvio) e il sabato che precede la prima domenica di maggio (ricorrenza della traslazione del corpo del santo da Pozzuoli a Napoli). Eccezionalmente nel 2005, in occasione dei millesettecento anni dalla sua decapitazione, ‘o santo guappone decise di abbondare: il 16 marzo, in un luminoso pomeriggio oltre il reale, il fazzoletto del marchese Pierluigi Sanfelice sventolò nel ventre del Duomo, segnalando ai fedeli e ai turisti accorsi la liquefazione “fuori programma”. Fu la prima volta nella storia del miracolo del Santo Patrono che il prodigio si ripeté con tale frequenza. È possibile che San Gennaro volle evidenziare l’evento con un coup de thêatre che ben si addice alla sua vita così carica di misteri.

Paolo VI retrocesse San Gennaro in Serie B, destinato esclusivamente al culto locale

Tant’è che la scarsità delle notizie storiche sul suo conto e l’incertezza della Chiesa circa il suo miracolo, convinsero papa Paolo VI, nel corso del Concilio Vaticano II (1962-1965), a retrocederlo in «serie B», ovvero a santo «a responsabilità limitata» destinato esclusivamente al culto locale. I napoletani, colti di sorpresa, reagirono a modo loro. Su un muro cittadino apparve in quei giorni l’inequivocabile scritta: «San Gennà futtatenne». Nell’anagrafe dei cieli, secondo una ricerca negli Acta Sanctorum (Atti dei santi) nel 1926, i San Gennaro martire erano più di una dozzina. Tra questi figurava «San Gennaro vescovo di Benevento e martire» che, stando alla tradizione, nel 305 si recò a Miseno per incontrare un giovane diacono incarcerato in seguito alle persecuzioni anticristiane di Diocleziano. Imprigionato, fu condannato a essere straziato dalle belve, che però davanti a lui si fermarono. Il giudice Dragonzio, allora, optò per la decapitazione. Il martirio del santo sarebbe avvenuto a Pozzuoli tra gli sbuffi della Solfatara. La prova, piuttosto discussa, è il ritrovamento di una pietra marmorea, conservata nella Chiesa di San Gennaro a Pozzuoli su cui, si dice, fu poggiata la testa del santo che ancora oggi, in contemporanea con la liquefazione del sangue nel Duomo di Napoli, cambierebbe colore. Declassato e decollato, ma soprattutto dimenticato. Su San Gennaro, dopo la sua morte, calò un silenzio secolare. Una cosa è certa: il suo corpo non riposò in pace. Le spoglie subirono una sfilza di spostamenti e traslazioni: dall’agro Marciano («tra la Solfatara e il cratere di Agnano»), alle catacombe di Capodimonte (qui cominciò la venerazione popolare per i suoi resti), da Benevento (nell’831 il trafugamento fu architettato dal duca longobardo Sicone), all’Irpinia (nel 1156 le sue ossa furono murate nell’altare maggiore del santuario di Montevergine). Finalmente, il 13 gennaio 1497, le reliquie tornarono a Napoli e furono sistemate nella Cappella del Duomo.

A sancire il «riscatto» di San Gennaro, martire «cornuto e mazziato» e per questo fortemente partenopeo, provvede una data che, dopo secoli d’oblìo, risveglia la storia del santo. Il 17 agosto 1389, per la prima volta, il «miracolo» della liquefazione del sangue è storicamente documentato. Da quell’estate il mito è tratto. Poco importa se il partito degli scettici fa notare che il ritorno di San Gennaro coincide proprio con quel periodo in cui era di moda il «tarocco» sacro: liquefazioni contraffatte e un commercio di reliquie «pezzottate», infatti, tenevano banco. Poco importa, perché il napoletano ha fede più nei segni visibili che in quelli invisibili. Anzi, più ce ne sono e meglio passa ‘a nuttata. Un altro prodigio è dietro l’angolo: San Gennaro non ha l’esclusiva sul sangue sciolto. Se non tutti sanno, ad esempio, che Santa Patrizia – monaca bizantina morta a Napoli nella metà del VII secolo – è la patrona di Napoli, pochissimi sono a conoscenza che il suo presunto sangue, custodito nel monastero di San Gregorio Armeno, è soggetto ogni 25 agosto al misterioso fenomeno della liquefazione. Si dice che nell’VIII secolo un cavaliere, nascostosi presso il sepolcro della santa, tolse un dente dalla bocca della patrona, provocando una fuoriuscita di sangue, raccolto poi in ampolle dalle suore. Nello stesso luogo del centro storico partenopeo si conservano e si liquefano i «resti ematici» di Sant’Andrea da Avellino, San Lorenzo e San Giovanni Battista. Nell’antico monastero angioino delle clarisse – per meglio intenderci «’o Munasterio ‘e Santa Chiara» – in piazza del Gesù, il 3 agosto e il 25 dicembre si liquefa il sangue di Santo Stefano: il «prodigio» non si ripete regolarmente, con buona pace delle monache. La tradizione, difatti, vuole che lo scioglimento del sangue annunci la morte della superiora in carica.

Il napoletano ha fede più nei segni visibili che in quelli invisibili

Altra reliquia, altra liquefazione: il 2 agosto nella Chiesa di Santa Maria della Redenzione dei Cattivi a Port’Alba, l’evento clou è la fluidificazione del sangue di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, autore della celebre cantata pastorale «Quanno nascette ninno». Nella Chiesa del Gesù Vecchio, invece, il 21 giugno avviene lo scioglimento del sangue di San Luigi Gonzaga e San Pantaleone. Il prodigio dei prodigi vede coinvolto proprio quest’ultimo, decapitato nel 325 a Nicomedia sotto l’imperatore Massimiliano. Il suo sangue pare sia il più «donato» in Campania (e non solo). Una grossa ampolla con il presunto sacro grumo, mescolato ad altro materiale, si trova nel duomo di Ravello dagli inizi del Seicento. La liquefazione si manifesta tra il 27 luglio e il 14 settembre, o anche oltre, senza che nessuno maneggi l’ampolla. Sue reliquie si trovano anche ad Amalfi, Vallo della Lucania, in alcune cappelle private e nelle chiese napoletane di San Gregorio Armeno, di San Severo e dei Santi Apostoli, a Roma e a Madrid. Nonostante San Pantaleone giochi su più ampolle, non ha scalzato San Gennaro nell’hit parade del sangue vivo. A Napoli direbbero: “San Pantaleò, nun te fa ‘o sanghe amaro”.

4 COMMENTS

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Antonio
1 mese fa

Il fatto che ci siano tante paternitá di sangue liquefatto, la dice tutta! Senza scomodare la scienza, chi vuole intendere intenda, e chi vuole credere, faccia pure, tanto non fa male a nessuno. O no, Max!!!

Antonio
1 mese fa
Reply to  Antonio

Grazie Antonio per il tuo commento. Come dici tu credere nell’invisibile e nell’oltre non fa male a nessuno. Viviamo tra la realtà e il sogno (l’altrove): abbiamo bisogno di lastricare i nostri giorni di speranze, appigli fantastici.

Maria Pina Cirillo
1 mese fa

Bellissimo articolo tra fede e ironia che scaturisce, proprio come sangue vivo, dal grande amore per Napoli

Maria Pina
1 mese fa

Grazie di cuore Maria Pina. Detto da te è motivo di orgoglio, conoscendo la tua immensa preparazione e il tuo libero senso critico. Un abbraccio forte e a presto!

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